mercoledì 19 agosto 2009

Anna Lasorella da Noicattaro agli Usa: «Lì cercano chi è bravo»

Vive a New York da dieci anni ma appena può torna a Noicattaro. «Sono molto legata alla mia famiglia e soprattutto ora che i miei genitori sono anziani, faccio ritorno a casa anche 6-7 volte nell'arco dell'anno». Anna Lasorella è una pediatra, esperta di biologia dei tumori cerebrali, ricercatrice presso il Columbia university medical center di New York. Lavora con il marito Anto - nio Iavarone, anche lui pediatra, anche lui esperto di tumori cerebrali, anche lui ricercatore alla Columbia. Insieme hanno scoperto lo Huwe1 il gene che aiuta le cellule staminali a svilupparsi e a diventare adulte. La ricerca, che si è meritata la copertina della rivista internazionale Developmental Cell, dimostra che lo stesso gene è coinvolto anche nel più aggressivo fra i tumori del cervello che colpisce bambini e adulti, il glioblastoma multiforme. La scoperta promette di avere conseguenze importanti sulla ricerca di base relativa alle cellule staminali, ma getta anche le premesse per future terapie contro i tumori. i due ricercatori hanno ipotizzato che l’attività di Huwe1 possa essere bassa nelle cellule dei tumori del cervello umano. Ipotesi che è stata confermata dal confronto fra i livelli di Huwe1 nel cervello normale e nei tumori cerebrali e dall’analisi condotta con un algoritmo messo a punto da un altro italiano, Andrea Califano, responsabile del Centro di Bioinformatica applicata allo studio dei tumori alla Columbia University. Abbiamo raggiunto telefonicamente la dottoressa Lasorella.Cosa hanno a che fare gli algoritmi con la ricerca genetica? In America c'è la corsa delle Università, dei centri di ricerca ad accaparrarsi le menti migliori, a creare delle squadre composte da individui che cercando di progredire, ogni giorno anche attraverso il confronto, la competizione. Lo scambio di informazioni, di conoscenze è indispensabile. Io e mio marito abbiamo attuato un rapporto di sinergia con un gruppo di informatici specializzati in biologia. Senza il loro aiuto non saremmo riusciti a fare determinate osservazioni, non avremmo progredito nella nostra ricerca. La dottoressa Lasorella e suo marito hanno lasciato l’Italia nel 1999. Entrambi lavoravano nella divisione di Oncologia pediatrica dell’università Cattolica di Roma e si ribellarono a una situazione di nepotismo. Si trasferirono a New York, nell’Albert Einstein College of Medicine. Negli Usa hanno collezionato un successo professionale dopo l’altro, pubblicando sulle più prestigiose riviste scientifiche internazionali.Il sistema universitario italiano vi ha voltato le spalle, costringedovi ad emigrare. Non abbiamo vissuto momenti piacevoli, il confronto con l'istituzione tesa a conservare lo "status quo", è stato molto duro. Per progredire bisogna cambiare, ammodernarsi, alimentare lo spirito di competizione. L'Italia è indietro per questo motivo, oltre che per la mancanza di finanziamenti. Bisogna investire risorse economiche e umane, lasciando spazio alle menti più brillanti, premiando chi più merita. Se foste rimasti in Italia sareste riusciti a scoprire il gene Hume1? Probabilmente restando all'interno di quel sistema che abbiamo rifiutato non saremmo riusciti a raggiungre i risulati conseguiti fino ad oggi. Di certo continuo a ritenere che nella ricerca c'è bisogna di premiare i migliori. Il diploma al liceo classico di Conversano, la laurea alla Università Cattolica di Roma, due specializzazioni e poi il lavoro nella divisione di Oncologia pediatrica dell’università . Nel 1993 sono andata a San Francisco dove sono rimasta per tre anni alla Università della California. Una esperienza al termine della quale ho deciso di tornare in Italia con l'ambizione di fare ricerca nella materia dei tumori cerebrali in pediatria unitamente all'attività clinica. Ho dovuto subito fare i conti con una realtà che mi teneva ai margini. Com’è stato andare via dall'Italia? È stato il prezzo che ho dovuto pagare per essere una donna e una professionista veramente libera. Sono molto legata alla mia famiglia e lasciarla è stata un sacrificio. Qualche volta è assalita dal pensiero di quello che avrebbe potuto essere se fosse rimasta in Italia? Non ho rimpianti e non per l'importanza dei risultati conseguiti con il nostro lavoro. Non ho rimpianti perché faccio il lavoro che sognavo. Sono soddisfatta e realizzata per quella che è la mia vita di ogni giorno, per la maniera in cui posso svolgere il mio lavoro. Ogni volta che vengo in Italia mi trovo di fronte gli stessi problemi di 10 anni fa. Incontro colleghi, bravi ricercatori che il sistema ha penalizzato e che sono rimasti indietro, non certo per colpa loro. I migliori, quelli che danno fastidio al sistema, vengono puntualmente emarginati. Sì, non avrei lavorato bene in Italia. Cosa ha trovato negli Stati Uniti che qui in Italia è certa di non trovare? Soprattutto la libertà, la libertà di lavorare nella maniera migliore e di esserne l'unica responsabile senza dover attendere la grazia di qualcuno. Tutto dipende da te. A un giovane che si iscrive oggi alla facoltà di Medicina, partendo da un piccolo comune come Noicattaro, con il sogno di diventare un ricercatore, lei che consiglio darebbe? Quello di avere il coraggio di non porsi dei limiti di tempo, di spazio, di luoghi. Di andare dove c'è il meglio. Di non aver paura di sacrificarsi, di fare delle scelte forti. Se non si ha la determinazione sufficiente per affrontare le sfide che il mondo della ricerca impone, meglio a quel punto fare il medico, l'attività di reparto, di corsia altrettanto importante.

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